Siamo quel che leggiamo: Un viaggio fantastico di Gerald Durrell
Non potevo inaugurare la mia rubrica sui libri che hanno segnato la mia vita senza partire da Un viaggio fantastico di Gerald Durrell. Questo, forse più di tutti gli altri, ha avuto una profonda influenza su di me, sia come persona che come scrittrice.
I motivi sono molteplici. Il primo è proprio l’autore: per una bambina appassionata di storie ma anche di scienza, e che poi da grande sarebbe diventata una biologa e una scrittrice, immaginate quale fascino poteva esercitare la figura di un naturalista-scrittore quale Gerald Durrell, che ha vissuto in Sud Africa, in Grecia e poi ha aperto uno riserva per la salvaguardia degli animali sull’isola di Jersey nella sua madrepatria, l’Inghilterra.
Di Un viaggio fantastico ne hanno fatte molte edizioni nel corso degli anni ma la prima edizione italiana, Mondadori 1988, mantiene un fascino ineguagliato, soprattutto per le illustrazioni che, almeno per quanto mi concerne, hanno molto contribuito a farmi innamorare di quel libro. Il tratto pastello, delicato ma ricco di particolari e dettagli ti catapulta immediatamente a bordo della Belladonna, coniugando nelle immagini l’arte e la narrazione col rigore della descrizione scientifica.
Un viaggio fantastico narra l’avventura dei tre fratelli Dullybutt intorno al mondo: Emma e i gemelli Ivan e Conrad ricevono un giorno la visita del zio Lancelot, che atterra nel loro giardino a bordo di una città-mongolfiera, la Belladonna, con serre e alberi da frutto, sala comandi e persino alcune murene che forniscono l’elettricità. Lo zio Lancelot porta con sé i tre nipoti alla ricerca del fratello Percival, andato in Africa a studiare i gorilla due anni prima e di cui non si hanno più notizie. Da lì comincia una caccia allo zio scomparso che porterà i ragazzi nei cinque continenti alla scoperta della natura e degli animali che lo popolano. Lo zio Lancelot possiede una polvere magica che permette ai ragazzi di capire e parlare con gli animali.
Un viaggio fantastico ha tutti gli ingredienti per colpire al cuore l’immaginazione di un bambino: l’esistenza di uno zio “fuori dagli schemi” che porta i bambini in un’avventura fuori dall’ordinario, calando dall’alto come un supereroe; una città volante dall’esotica forma a mongolfiera, una polvere magica per parlare con gli animali, un mistero da risolvere.
Questo libro non è solo una bella avventura ma lancia anche importanti messaggi sulla salvaguardia della natura e delle specie animali. Emma, infatti, annota nel suo taccuino tutte le informazioni che ottiene dagli animali sulla loro vita e sulle loro abitudini. Gerald Durrell inserisce nella narrazione rigorose descrizioni scientifiche sulle specie animali e sugli ecosistemi che i protagonisti incontrano nel viaggio: savana, tundra, deserto, foresta equatoriale.
Ma ciò che Gerald Durrell riesce più di tutto a trasmettere è il senso di stupore nei confronti del mondo in cui viviamo, e la bellezza dello studio e del metodo scientifico.
E infine, c’è un altro motivo per cui questo libro ha un posto speciale nel mio cuore: per tre giorni è diventato realtà. Quando avevo 8 anni, mio papà organizzò un viaggio di tre giorni a Venezia facendo finta che fosse una missione segreta, commissionata da quella stessa Royal Society inglese che, in Un viaggio fantastico, sovvenzionava le missioni degli zii Lancelot e Percival. Tutto fu organizzato di minimi dettagli, con tanto di lettera in inglese spedita per “posta aerea” con i biglietti del treno e l’obiettivo della missione: salvare i piccioni di Venezia da un cattivo che voleva avvelenarli tutti, e consegna misteriosa di un pacco di mangime con l’”antidoto” davanti alla nostra camera di albergo. Io capii l’“inganno” solo molti anni dopo, da grande, ma non ha cambiato la magia e l’emozione che ho vissuto durante quei tre giorni da bambina.
Chissà se è anche per questo che, molti anni dopo, quando scrissi la storia di Gedeone, il mio primo albo illustrato (Il Gioco di Leggere 2010) scelsi proprio un piccione come protagonista.
Questo era il mio libro preferito quando ero bambino, non so quante volte l’ho riletto. Poi è rimasto lì un quarto di secolo ad aspettare. Ora lo leggo a mia figlia di 5 anni (avevo già provato quando ne aveva 2 ma era troppo presto perché lo capisse) ed è un po’come se le passassi una parte di me.